La questione sollevata da Enrico Rossi riguardo l’aumento del prezzo del grano tenero per contrastare l’abbandono del paesaggio rurale non è diversa dal problema sollevato dai 300 pastori riunitisi nel grossetano per protestare contro i lupi che sbranano le greggi.
Se infatti la questione economica è il problema dei problemi (importiamo ormai + del 40% fra grano duro e tenero in Italia e ancora di più di latte) anche produrre latte richiede terra da recuperare ai 100.000 ha che abbandoniamo ogni anno, dei quali 75.000 diventano boscati (Toscana + 6000 ha/anno) e tenere a bada i predatori delle pecore e delle altre colture agricole, così come le specie vegetali che competono con il grano per intenderci.
I pastori maremmani hanno avuto il coraggio di dire quello che la maggior parte dei politici ha paura di dire e cioè che la direttiva habitat va modificata, non solo per i problemi legati al carico eccessivo di fauna animale, ma perché in realtà non conserva il paesaggio italiano, ma una idea di paesaggio partorita in nord Europa e in nord America, purtroppo condivisa da gran parte della opinione pubblica. Pensare di tenere a bada i lupi con i cani da pastore come proposto non è diverso dal chiedere agli agricoltori di recintare a loro spese i campi, si tratta di difenderci ormai, mentre invece va cambiata la cultura.
Papa Francesco con la sua enciclica ha purtroppo sostanzialmente chiuso il cerchio, abbinando a leggi e regolamenti che già certificano il risultato dell’abbandono anche la “colpa” , intesa in senso cristiano, unendo al problema etico della responsabilità ambientale anche il concetto di peccato in senso cristiano, ma occhieggiando ai paesi occidentali, non al terzo mondo come sembra.
La maggior parte del pubblico ignora la difficoltà di coltivare la terra e la provenienza del cibo che mangiamo, la cosa interessante è che mentre le posizioni di parte dei cittadini e degli agricoltori divergono riguardo alla attuale conservazione della natura, tutti si ritrovano assolutamente uniti attorno a ricche tavole imbandite dove si mangiano formaggi e pasta, fatti con latte tedesco e grano canadese. Oltre a quelli climatici è forse è il caso di iniziare a proporre altri scenari, derivanti da una ricerca svolta in collaborazione con la FAO.
Sembra infatti che il problema alimentare ( necessità di +70% di cibo nei prossimi 50 anni) e il bisogno di terra da coltivare sia di minore importanza rispetto all’aumento di qualche grado della temperatura. Se per la fine del XXI secolo dovesse avverarsi la probabilità di avere 2 gradi di aumento medio riusciremo ugualmente a coltivare la terra. Proiettando invece a fine secolo le tendenze dell’abbandono correnti, arriveremo ad avere in Italia solo aree urbane circondate da boschi e senza più aree coltivate.
A quel punto, non avremo contribuito significativamente a ridurre il riscaldamento del clima, dato che con lo 0,5% in rapporto alle foreste mondiali le foreste italiane saranno ininfluenti, mentre invece dovremo importare tutto il cibo che ci serve. Considerando che la popolazione mondiale è ormai a più di 7 miliardi dovremo trovare non solo il cibo ma anche chi ce lo vende, vedremo poi di quale qualità e a che prezzo.
Dovremo contenderci le residue risorse alimentari con le altre specie animali, il cui numero, aumentato in proporzione, richiederà tutto il territorio non edificato e difenderci da esse. E’ probabile che l’Università di Tokio con il suo progetto di produzione di cibo in laboratorio abbia visto giusto e noi con i nostri prodotti tipici abbinati al paesaggio no.