L’argomento del referendum sulle trivelle per lo sfruttamento dei giacimenti di petrolio in Puglia e gli impianti per il trasporto del greggio estratto in Basilicata, al di là del problema di essere utilizzati per mettere in difficoltà più o meno strumentalmente qualche personaggio o partito politico, meritano qualche commento. In generale non si tratta di un tema nuovo , ma che ricorre periodicamente nel nostro paese. La questione può essere affrontata da due punti di vista principali. Uno è quello relativo alla possibilità di sfruttare efficacemente i nostri giacimenti di energie fossili, l’altro è quello di risolvere l’eterno problema del modello di sviluppo del sud dell’Italia. La prima questione è abbastanza semplice da trattare in quanto , come sanno bene gli esperti di ambiente che trattano il tema, con l’attuale prezzo del petrolio e considerando la scarsa qualità del greggio estraibile e le difficoltà tecniche per estrarlo semplicemente non conviene. Riunioni tecniche fatte da associazioni ambientaliste serie hanno già fatto questa analisi che coincide con quella delle grandi compagnie petrolifere chiamate a valutare tali risorse. Parliamo quindi di attività non rivolte a risolvere il problema energetico, ma più probabilmente a mettere in moto attività che dovrebbero assorbire manodopera. Per par condicio è bene dire che il problema si pone sia dal punto di vista ambientale che da quello industriale. La legge per la montagna fatta da Amintore Fanfani nel 1952 dette il via a cantieri di rimboschimento che avrebbero portato a quasi 800.000 ha di rimboschimenti di conifere e alla creazione di migliaia di posti di lavoro nel sud dell’Italia, con l’obiettivo di portare ad uno sviluppo delle nostre risorse forestali favorendo la crescita dell’industria del legno e lo sviluppo economico. La legge non risolse il problema. Al contrario le decine di migliaia di operai forestali assunti in quegli anni sono rimasti e li paghiamo ancora tutti e l’industria del legno non è decollata. Sorte non diversa hanno avuto tutte le torri eoliche installate nel nostro meridione negli ultimi anni. Sono sostanzialmente inutili a livello energetico, deturpano il paesaggio come farebbero le trivelle in mare o gli oleodotti in terra, e non hanno risolto il problema dei posti di lavoro. Quest’ultimo punto è abbastanza interessante. Vari commentatori pongono la questione come una sorta di alternativa fra una “utopia di sviluppo” basato su agroalimentare, turismo e paesaggio, ed un modello di “sano sviluppo industriale”, l’unico che può fare crescere il paese, perché si sa, di paesaggio, cultura e turismo non si campa. Appare piuttosto miope e fuorviante mettere in discussione che il paesaggio rappresenti un valore economico importante. La maggior parte degli italiani impegna gran parte dei suoi risparmi nel comperarsi una casa che, secondo le proprie disponibilità e il luogo di lavoro è di solito la più bella possibile e nel più bel posto possibile, che sia città o campagna. I più fortunati investono altri risparmi in una seconda casa, che ancora di più deve essere bella e in un bel posto. Quasi tutti poi vanno in vacanza in quello che pensano, essere un bel posto. Pare quindi che il retorico “bel paesaggio italiano” sia oggetto di un discreto impegno di risorse economiche, ed i bei posti abbiano un discreto valore economico. Aggiungeremmo poi che se la qualità del paesaggio, specie quello rurale, è parte della qualità della vita come dice l’ISTAT, anche questa qualità è un valore economico. Venendo a dati più cari agli economisti classici, il nostro settore industriale vale il 18% del PIL, il nostro agroalimentare con il suo indotto il 14%, ed il turismo più o meno il 10%. Dato che c’è un’evidente complementarietà fra turismo e agroalimentare, tutto questo porta ad un bel 24%, che forse non sarà la soluzione dei problemi del sud o dell’Italia, però sono numeri…. come gli altri.