Col passare dei giorni si fanno progressivamente più chiari i motivi che hanno portato al disastro dell’isola di Maui che ancora oggi non ha un bilancio definitivo delle vittime. I funzionari del Dipartimento di Agricoltura e Foreste del governo forestale non sono autorizzati a rilasciare dichiarazioni, ma gli incontri informali con i colleghi dell’Università delle Hawaii e il personale del centro di ricerca sulle foreste del pacifico evidenziano motivazioni che trovano un parallelo anche con la situazione in Italia e in altre parti del mondo. C’è da osservare che il fuoco sviluppatosi nel centro dell’isola sembra dovuto al crollo di una linea elettrica a causa dei forti venti, mentre quello sviluppatosi intorno della città di Lahaina ha causato molte vittime anche per via degli edifici in legno e non ultimo per il fatto che, fra altre problematiche organizzative, le pompe dei pompieri non avevano pressione idrica sufficiente. I forti venti, superiori a 110 km orari, il periodo siccitoso e le alte temperature, anch’esse effetto del riscaldamento climatico, hanno sicuramente reso difficile arrestare il fuoco e contribuito alla sua veloce espansione, ma uno dei fattori più significativi per il suo rapido propagarsi è anche l’abbandono dell’agricoltura che ha caratterizzato gli ultimi 200 anni di storia locale. L’economia agricola ha infatti lasciato il passo ad un enorme sviluppo del turismo contribuendo anche alla attuale dipendenza delle isole dall’importazione di cibo. Fra altre conseguenze si è avuto sviluppo di una estesa vegetazione erbacea e arbustiva sui campi abbandonati che ha creato una copertura continua di materiale vegetale altamente infiammabile.
Un tempo, oltre ad avere un mosaico agricolo diversificato, che di per se contribuisce ad interrompere la diffusione del fuoco, vi era anche una popolazione agricola attiva che contribuiva allo spegnimento di eventuali incendi. Il fuoco non è infatti un evento occasionale, fra il 1999 e il 2020, vi sono stati infatti ben 80 incendi solo a Maui, quattro all’anno, ed ogni anno nelle Hawaii brucia circa l’1% della superficie territoriale, una percentuale molto superiore a quella degli incendi in Italia che ha un territorio dieci volte più grande. Tuttavia, anche nel nostro paese, l’abbandono di dieci milioni di ettari di aree agricole negli ultimi 80 anni e il raddoppio della superficie forestale, passata da circa cinque a undici milioni di ettari, dei quali almeno un milione costituiti da formazioni arbustive, unito alla riduzione della diversità del mosaico di colture agricole, forestali e pastorali ha creato estese superfici vegetali compatte ed omogenee, assai suscettibili al fuoco, anche perché non oggetto di alcuna forma di gestione. Se il riscaldamento climatico e il prevedibile aumento dei periodi siccitosi, alle Hawaii, in Italia e in altri parti del mondo, aumenterà il rischio degli incendi, oltre al potenziamento dei servizi antiincendio sarebbe utile valutare anche le modifiche dell’uso del suolo dovute ai cambiamenti socioeconomici e la suscettibilità al fuoco dei vari tipi di paesaggio prevedendo interventi adeguati.
Mauro Agnoletti
Direttore -Cattedra UNESCO- Paesaggi del Patrimonio Agricolo- Università di Firenze